Caritas in veritate

Caritas in veritate


Il Riformista 8 Luglio 2009

 

DOTTRINA SOCIALE E DIFESA DELL’UOMO

di Eugenia Roccella

 

 

La politica tende a ridurre le mille sfumature che differenziano la grande e multiforme famiglia cattolica, comprimendole in due sfere separate: l’etica del sociale e l’etica della vita. Lo schema segue le grandi semplificazioni generalizzanti, come la distinzione tra laici e cattolici, destra e sinistra; in questo caso, o si privilegia la difesa della vita, e si sta più a proprio agio con il centrodestra, o il terreno del sociale, e si pende a sinistra. Ci possono essere sovrapposizioni e accavallamenti, ma in genere si appartiene all’una o all’altra tribù, che ha il proprio linguaggio, i propri temi privilegiati. Sempre di "ultimi" si tratta: i più fragili, e dunque gli embrioni, i non ancora nati, i disabili estremi, i malati gravi; oppure gli ultimi nella scala sociale, i poveri, gli immigrati, i rifiutati, i bisognosi. L’enciclica "Caritas in veritate" fa piazza pulita di questa distinzione, affermando, con la forza di un pensiero straordinariamente limpido, che «la questione sociale è diventata integralmente questione antropologica».

 

Il rischio all’orizzonte è la fine di qualunque forma di umanesimo, forse persino la fine dell’umano tout court, grazie alla manipolazione non solo della biologia umana e del corpo, ma delle relazioni fondamentali, come quelle tra genitori e figli, e all’indebolirsi di quei rapporti che, attraverso la gratuità e il dono, affermano la fratellanza e l’uguaglianza tra persone.

È un rischio che la politica fatica a leggere, perché sempre troppo coinvolta nel presente, nelle urgenze del momento, mentre la Chiesa, che ha uno sguardo che oltrepassa la contingenza storica, da anni lancia l’allarme, insistendo, come ha fatto il cardinale Ruini, sulla questione antropologica, e non soltanto sulla tutela della vita.

 

Il Papa è chiarissimo: l’enciclica sociale di Paolo VI, la "Populorum progressio", e il concetto di sviluppo su cui fa perno, va integrato con l’"Humanae vitae", e bisogna ricordarsi che «il primo capitale da salvaguardare è l’uomo, la persona nella sua integrità». Non c’è vero sviluppo senza «apertura alla vita», senza combattere la cultura del «disincanto totale, che crede di aver svelato ogni mistero», e che promuove una «concezione meccanicistica» della vita umana.

«Come ci si potrà stupire dell’indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l’indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è?». Questa è la domanda che la politica, tutta, deve porsi, se vuole attrezzarsi per affrontare le nuove disuguaglianze che si prospettano, che già si stanno creando.

 

Asimmetrie sociali che derivano, per esempio, dall’idea che il corpo e le sue parti siano oggetti materiali, a disposizione del mercato, di cui si possono stabilire i diritti di proprietà. Non parlo solo dell’angosciante questione degli embrioni crioconservati, vite umane sospese tra l’essere e il non essere, ma anche dei molti problemi posti dall’utilizzo di cellule e tessuti, sia conservati per uso personale che a fini di ricerca; o ancora dalla possibilità di produrre farmaci su misura del singolo paziente, e dai nuovi pericoli di disparità di accesso che emergeranno.

Parlo di un mercato del corpo che già esiste, ed è l’altra faccia dei diritti individuali reclamati da alcuni: per esempio la vendita e il traffico di ovociti, problema inseparabile dalla fecondazione eterologa, di cui costituisce il versante commerciale negato.

Potrei citare l’esistenza di una rete internazionale di biobanche private, pronte a coprire ogni offerta possibile, da quella di embrioni belli e fatti (perché fare la fatica di sottoporsi ai trattamenti di fecondazione artificiale, quando si può avere il prodotto semilavorato?) a quella della conservazione delle staminali del cordone per uso autologo, ampiamente pubblicizzata nonostante la comunità scientifica sia concorde nell’affermare che ad oggi non c’è alcun vantaggio concreto per chi lo fa.

Solo il mistero della Creazione, che non si lascia penetrare così facilmente, ci ha salvato dalla produzione di ibridi uomoanimale, consentita dall’apposita Authority inglese, ma fallita nei laboratori; e saranno forse i risultati poco felici della diagnosi preimpianto a impedire che il nuovo eugenismo prenda piede, stabilendo nei fatti, oltre ogni proclama della Convenzione Onu sulla disabilità, che chi è imperfetto non ha diritto a nascere, e che una vita con qualche disabilità non è degna di essere vissuta.

 

«Il problema dello sviluppo è strettamente collegato anche alla nostra concezione dell’anima dell’uomo» si legge nella "Caritas in veritate". La tensione verso la felicità, richiamata nella Costituzione americana, presuppone la capacità umana di guardare verso l’alto, come diceva Simone Weil, e non solo in avanti.