in Svezia

in Svezia

ELEZIONI POLITICHE 2018, DALLA SVEZIA NUOVI VENTI DI CAMBIAMENTO

Veronica Mameli

Domenica 9 settembre 2018 gli svedesi sono stati chiamati a eleggere i nuovi rappresentanti di governo, dopo una campagna elettorale estremamente complessa: il vento che sta soffiando in Europa sta portando ovunque cambiamento.

Lo storico partito dei Socialdemocratici, guidato dall’attuale premier Stefan Löfven, ha realizzato il peggior risultato elettorale di sempre: non è più il partito col maggior consenso popolare in Svezia. Mai i Socialdemocratici avevano perso così tanti punti percentuali alle elezioni, con quasi 3 punti in meno rispetto a quelle del 2014 e fermandosi a meno del 28,5 per cento. E’ calata ancora la formazione dei Moderati, (-3,5%), così come quella ecologista, Miljöpartiet, che addirittura ha rischiato di rimanere fuori dai giochi, avendo a malapena raggiunto la soglia minima richiesta del 4%.

Seppur i Socialdemocratici e i Moderati rimangano rispettivamente il primo e il secondo partito, non hanno la maggioranza per governare e dovranno necessariamente stringere alleanze con altri partiti minori, che hanno visto aumentare i propri consensi. Tra questi i Cristiani Democratici (Kristdemokraterna) (+1,8%), la sinistra radicale (Vänsterpartiet) (+2,2%), il partito di centro (Centerpertiet) (+2,5%),ma soprattutto la destra sovranista dei Democratici di Svezia (Sverigedemokraterna) (+4,7%) che ha raggiunto il 17,6 % (anche se non corrisponde a quanto preventivato dai sondaggi che lo davano intorno al 19-20%). Quest’ultimo partito, guidato dal leader Jimmie Åkesson, è quello che ha visto crescere maggiormente il proprio elettorato,piazzandosi terzo, e acquisendo un peso rilevante nella formazione del futuro governo.

Secondo i dati ufficiali i voti perduti dai socialdemocratici e dei moderati sono andati proprio alla destra sovranista e anti-immigrazione, che ha intercettato il malcontento della società svedese.

La Svezia nell’ultimo periodo ha infatti visto cambiamenti importanti nelle proprie città e paesi, in primis in relazione alle ondate migratorie. Nel solo anno 2015 è stato raggiunto il picco di 160 mila richiedenti asilo, e fino ad oggi la Svezia ha accolto più di 200 mila immigrati, che la considerano una sorta di terra promessa per via dei generosi benefit e dell’organizzazione sociale nel suo complesso.

L’accoglienza però non coincide con perfetta integrazione, e quella che un tempo era una società aperta e multietnica ha dovuto affrontare fenomeni sociali sconosciuti e inimmaginabili fino a poco tempo fa, come la nascita e l’espansione delle cosiddette “no gone zones”, enclavi o zone-ghetto a prevalenza di immigrati africani o mediorientali, dove gli svedesi non mettono piede e che la polizia non riesce a controllare. Sono caratterizzate da un alto tasso di criminalità e di indice di disoccupazione, da consistente povertà e disuguaglianza sociale. Basti pensare alle periferie delle principali città, come Kista, Rinkeby, Husby a Stoccolma o Rosengård a Malmö, solo per citarne alcune, dove la popolazione svedese è ormai la minoranza e lo Stato non riesce più a svolgere appieno le sue funzioni.

E’ stato un giornalista svedese nel 2015 a definire  queste aree come “no gone zones”, termine poi ripreso da varie testate internazionali, ma che in un Paese estremamente attento al linguaggio politicamente corretto è stato respinto dalle stesse istituzioni, per evitare di affibbiare uno stigma sociale. La polizia preferisce descriverle come “aree socio-economicamente vulnerabili con un generale alto livello di criminalità”. In questi territori si viene a creare un vero e proprio Stato nello Stato, con strutture parallele, dove vige generalmente l’estremismo religioso di matrice islamica e gli stessi abitanti non sono soliti denunciare i crimini commessi, per omertà, per timore di ritorsioni o per sfiducia completa nelle istituzioni.

Nell’ultimo rapporto nazionale della Polizia di Stato del 2018 le “no go zones” sono aumentate di numero: da 53 nel 2015 alle attuali 61, di cui 23 considerate particolarmente vulnerabili (mentre nel 2015 erano 15), 6 a rischio di diventarlo e 32 vulnerabili.

Sulle colonne del quotidiano Dagens Nyheter, i capi della polizia nazionale Dan Eliasson e Mats Löfving riferiscono che nelle 61 aree vulnerabili le reti criminali presenti sarebbero circa 200 e il numero di crimini in costante aumento: sparatorie e omicidi, compiuti anche da gang di ragazzini, traffico di armi, esplosioni di bombe a mano, stupri e molestie sessuali, lanci di pietra contro la polizia, danneggiamento e incendio di automobili e disordini vari.

Nelle aree a forte immigrazione islamica, come per esempio Rinkeby, periferia di Stoccolma soprannominata “la piccola Mogadiscio” per l’altissima percentuale di popolazione somala, la legge che vige è quella della sharia. E’ quello che da qualche anno a questa parte testimonia Mona Walter, coraggiosa attivista somala arrivata in Svezia come rifugiata nel 1994 e convertitasi poi al cristianesimo. Su di lei pende una fatwa di morte per aver abiurato l’islam e perché si batte per una reale libertà di religione in Svezia. La Walter racconta che paradossalmente si sentiva molto più libera a Mogadiscio che non a Rinkeby: era abituata a poter andare al cinema, a vestirsi all’occidentale e a vivere una vita da musulmana non praticante, come lo era la sua famiglia. Arrivata in Svezia è stata invece obbligata a leggere e studiare i testi sacri religiosi, a indossare il velo e ad ascoltare in moschea le prediche dell’imam, che parlava degli svedesi come di infedeli, criminali e meritevoli di odio, così come lo sarebbero in generale tutti gli ebrei e i cristiani.

Altro fenomeno un tempo sconosciuto in Svezia sono i consueti controlli ginecologici sulla verginità delle giovani ragazze islamiche e persino delle bambine, effettuati negli ospedali, come mostrato da un reportage trasmesso da una nota trasmissione televisiva qualche anno fa.

Molti immigrati o svedesi di seconda generazione ammettono di non sentirsi propriamente svedesi e continuano a parlare la loro lingua d’origine, a mantenere i loro usi e tradizioni, a guardare la televisione dei loro Paesi e non sentirsi integrati in una società così profondamente diversa dalle loro radici.

Non solo quindi non si può parlare in Svezia di piena integrazione e di uguaglianza fra gli svedesi e gli stranieri che vi si sono insediati: anche la libertà di credo religioso è in bilico, così come quella di stampa e di espressione. La stessa Walter dichiara alla stampa internazionale che persino lei, che ha la pelle scura ed è africana, viene tacciata di essere razzista o islamofobica perché osa criticare l’islam e il modo di vivere dei suoi connazionali in Svezia. Sostiene inoltre che persino l’Aftonbladet, testata nazionale, in occasione di una sua intervista, ha censurato l’episodio di lanci di uova da parte degli abitanti di Rinkeby contro di lei e la troupe televisiva che stava facendo le riprese nella zona. E pensare che la Svezia è stata il primo paese a introdurre la libertà di stampa e di pensiero, con la prima legge costituzionale al mondo sulla libertà di stampa, nel 1766!

Non è facile per gli svedesi, abituati a primeggiare nelle classifiche internazionali per il sistema di welfare sociale, la garanzia e il rispetto dei diritti civili e la qualità della vita, dover ammettere che il loro moderno modello sociale di cui tanto vanno fieri non è così perfetto come generalmente si ritiene.

La radicalizzazione islamica riguarda non solo l’area di Stoccolma, ma si è espansa e continua a crescere in varie parti della Svezia. Basti pensare all’area di Gotemburgo, dove si è insediata profondamente la presenza salafita e da dove proviene la metà dei foreign fighters di tutta la Svezia: dopo il Belgio è il Paese col più alto tassi di foreign fighters per abitante in Europa.

In base al Rapporto del Swedish Defence College (Försvarshögskolan) diversi attivisti islamici utilizzano conti bancari svedesi per raccogliere il denaro utile al finanziamento del jihad.

Nelle periferie di Gotemburgo circola la polizia islamica, istituzione parallela a quella statale, autoproclamatasi garante dell’applicazione della legge della sharia, che ha il compito per esempio di controllare che le donne indossino il velo e non i jeans.

La vita quotidiana delle periferie della costa occidentale svedese non differisce molto da quella di altri quartieri svedesi a maggioranza islamica, scandita dal richiamo delle preghiere dagli altoparlanti delle moschee e da un rigido controllo sociale, tanto che persino ai bambini salafiti è proibito giocare con bambini del sesso opposto o con fede diversa.

Dal versante opposto, non è invece infrequente incontrare di notte nelle città svedesi ronde di privati cittadini riuniti in associazioni di stampo neo-nazista, come ad esempio “i soldati di Odino”, che pattugliano le vie frequentate soprattutto da immigrati.

Nel voler interpretare i risultati delle elezioni in Svezia, non bisognerebbe dimenticare inoltre che il Paese ha subito nel proprio territorio un paio di gravi attentati terroristici di matrice islamica: il primo nel 2010 quando un kamikaze si fece esplodere al centro di Stoccolma e l’ultimo, il più pesante in termini di perdite civili, il 7 aprile 2017, sempre a Stoccolma, quando un camion guidato da Rakhmat Akilov travolse la folla nella via più importante della città, Drottningatan: persero la vita 5 persone e 15 furono ferite, di cui 9 gravemente. Dalle indagini della polizia è emerso che l’attentatore, di nazionalità uzbeka, si era radicalizzato proprio all’interno delle moschee in Svezia e non nel suo Paese d’origine, dove familiari e conoscenti non lo ricordavano essere un islamico devoto.

L’espandersi della radicalizzazione islamica, i copiosi flussi migratori, la complicata integrazione dei nuovi cittadini, i disordini sociali e il timore di non riuscire più a mantenere lo status quo che il glorioso welfare ha sempre dato agli svedesi, dando loro la percezione di vivere nel migliore dei mondi possibili, hanno minato la fiducia nella storica socialdemocrazia. A cavalcare l’onda del malcontento è la destra sovranista del giovane carismatico Jimmie Åkesson, che ha ripulito l’immagine del proprio partito, eliminando la coltre di razzismo e neo-nazismo epurando gli attivisti più estremisti e sostituendo l’originario simbolo della torcia ardente con un innocuo anemone dai colori giallo-blu, a richiamare i colori della bandiera nazionale.

In campagna elettorale Åkessonsi è servito sui social di foto e riproduzioni di paesaggi tipici svedesi, affiancate a quelle delle “no go zones”, come ad esempio una in cui affiancava auto bruciate all’immagine rassicurante di un tipico lago svedese, con cielo azzurro e da boschi all’orizzonte, accompagnata da slogan quali “Che Svezia scegli?” ovvero “Adattati alla società svedese oppure scegli un altro paese”. Accentuando le differenze tra i due volti della società svedese, Åkesson ha intrapreso la sua campagna elettorale affrontando i temi della sicurezza, delle politiche immigrazioniste e dei relativi costi che influirebbero negativamente sull’economia svedese e sulla disoccupazione, e non ha risparmiato critiche all’Unione europea.

In campagna elettorale sono state scambiate reciproche accuse di razzismo fra i vari partiti politici rivali e al riguardo, in risposta alle accuse dei socialdemocratici, il partito guidato da Jimmie Åkesson ha utilizzato un documentario di grande impatto, trasmesso alla tv pubblica svedese e visto su internet in pochi giorni da più di mezzo milione di utenti, dal titolo “Un popolo, un partito”. Il filmato, di quasi due ore, documenta i risvolti oscuri della storia, in parte inedita, del partito socialdemocratico e del movimento dei lavoratori fin dagli inizi del Novecento, ripercorrendo un secolo di storia svedese, da quando cioè il partito più influente della Svezia ha preso il potere, nel 1908, fino ai giorni nostri. Il documentario, usando immagini e video d’archivio, svela le pagine buie della storia del partito socialdemocratico, macchiate dal collaborazionismo stretto con la Germania nazista di Hitler e dalla contaminazione con il pensiero eugenetico. Vengono inoltre mosse gravi e pesanti accuse di antisemitismo, derivato dall’elaborazione della biologia razziale, nata in Svezia e poi sviluppatasi nella Germania degli anni Trenta, che ha portato a sterilizzazioni forzate di più di 60.000 svedesi, per lo più donne, perdurate fino agli anni Settanta.

Come la Germania ha affrontato il tema dell’Olocausto, la Svezia dovrebbe affrontare in modo più aperto di quanto faccia adesso l’utopia eugenetica che ha segnato così drammaticamente la sua storia passata.

Altra novità sorprendente nella campagna elettorale del Paese scandinavo è stato l’ingresso, seppur in sordina, del tema dell’aborto, parlando addirittura di una sua limitazione. La proposta, avanzata dai Democratici di Svezia, riguarda il cambiamento in senso restrittivo della legge sull’aborto, la l.n.318/1938 “Lag om avbrytande av havandeskap”, letteralmente “legge sulla cessazione della gravidanza”La legge sull’aborto è entrata in vigore nell’ordinamento giuridico svedese nel 1938,  principalmente per vietare che donne considerate indegne mettessero al mondo figli e ostacolassero il miglioramento della qualità umana. La legge sulla cessazione della gravidanza prevedeva anche che l’aborto per la donna con problemi di ereditarietà genetica potesse essere praticato solo se seguito dalla sua sterilizzazione. La legge n.318/1938 fu poi modificata in senso espansivo nel 1975, autorizzando l’aborto senza più ragioni eugenetiche e sociali a carico della donna.

Nello specifico, l’attuale proposta politica è quella di restringere il limite dell’aborto dalla diciottesima alla dodicesima settimana, allo scopo di armonizzare la legislazione svedese con quella europea. In Svezia, quindi,  è caduto il tabù dell’intangibilità della legge sull’aborto, al contrario di quanto avviene in casa nostra, dove invece  la l.n.194/1978 sembra un totem immutabile del nostro ordinamento giuridico. La politica svedese ci mostra che di aborto si può discutere: lo si può fare persino in campagna elettorale, laddove vi sia un margine di possibilità di intervento.

Vedremo se questa proposta di legge si concretizzerà. In ogni caso il dibattito culturale e politico sul tema è aperto, e staremo a vedere se le novità che giungono dalla Svezia continueranno a sorprenderci.