17 Febbraio questione giuridica – 2
Avvenire 5.2.2009
«Uso abnorme del diritto per far morire Eluana» di Lorenzo d'Avack *
La drammatica vicenda della Englaro suscita un confronto su problematiche etiche, politiche e giuridiche in merito al consenso informato all’atto medico. Quanto scriviamo vuole essere una mera riflessione nell’ambito del giuridico, evitando così di esprimere giudizi morali più facilmente opinabili.
A seguito di una lettura personalista della Carta costituzionale (artt. 13 e 32) e in forza di diverse Carte e Convenzioni europee, la nostra giurisprudenza è certamente univoca nel ritenere il consenso informato e consapevole del malato all’atto medico parte del più ampio principio della libertà, in virtù del quale la persona non può essere sottoposta a coercizione nel corpo e nella mente. Ne consegue la possibilità per il paziente competente, adeguatamente informato, di rifiutare o rinunciare a qualsiasi trattamento terapeutico, anche salva-vita. Tuttavia, va ricordato che per vicende come quella dell’Englaro, incapace di intendere e di volere – e in ciò sta la marcata differenza con il caso Welby –, il quadro compositivo dei valori in gioco ha evidenziato alle nostre Corti di giustizia un ulteriore problema: se il potere di rappresentanza del tutore si estenda fino alla possibilità di rifiutare un trattamento sanitario salva-vita. Un quesito che ha ricevuto risposte diverse tra il passato e il presente, così che appare arduo sostenere che la giurisprudenza sia univoca e non presenti dissonanze. Un’assenza di certezza che lascia sgomenti a fronte di richieste che coinvolgono diritti personalissimi come è quello al bene salute e di conseguenza alla vita.
Voglio ricordare che nel caso Welby l’ordinanza civile del Tribunale di Roma (2006), che dichiara inammissibile la richiesta del distacco del respiratore; l’ordinanza del Tribunale penale di Roma (2007), nella persona del gip, che rinvia a giudizio Mario Riccio per il reato di omicidio del consenziente e infine la sentenza del Tribunale penale di Roma (2007), nella persona del gup, che dichiara il non luogo a procedere sempre nei confronti del dottor Riccio, sono decisioni tutte una diversa dall’altra nei princìpi e nelle conclusioni che ne conseguono.
Non diversamente nel caso Englaro. La Corte d’Appello di Milano con il decreto del novembre 2006 conferma quanto già deciso dal Tribunale di Lecco (2005) e dichiara inammissibile il ricorso del padre-tutore che, come noto, chiede la cessazione dell’idratazione e nutrizione artificiale a cui è sottoposta la figlia. Questa decisione ritiene che nel caso di un paziente non più in grado di intendere e volere occorre verificare la sua pregressa volontà e qualora questa non sia certa deve essere effettuato un bilanciamento tra diritto all’autodeterminazione e diritto alla vita.
Un bilanciamento che in base a dati costituzionali e normativi deve risolversi a favore del diritto alla vita e non della morte del soggetto.
Pertanto, nella globale valutazione della vicenda Englaro non si può trascurare che nel 2006 la Corte d’Appello di Milano riteneva quella prova testimoniale sulla pregressa volontà della paziente «generica» e non in grado di attribuire alla ragazza «il valore di una personale, consapevole e attuale determinazione volitiva, maturata con assoluta cognizione di causa...».
La decisione viene cassata dalla ben nota sentenza della Suprema Corte (21748/2007) che in materia di ricerca della volontà del paziente non più pertinente (cioè dell’Englaro) impone, con molto sconcerto per chi la legge in termini giuridici, che si tenga conto «della sua personalità del suo stile di vita, delle sue inclinazioni, dei suoi valori di riferimento e delle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche». A ciò si atterrà successivamente la Corte d’Appello di Milano con il decreto del 2008 che autorizza la disattivazione del presidio sanitario (alimentazione e idratazione artificiale), senza svolgere alcuna ulteriore attività istruttoria per verificare gli ormai lontani desiderata della paziente.
Dunque, quelle prove orali (prove per testi) giudicate in precedenza generiche e insufficienti, divengono ora attendibili, e indicative della personalità (= volontà) della paziente, «caratterizzata da un forte senso di indipendenza, intolleranza delle regole e degli schemi, amante della libertà e della vita dinamica, molto ferma nelle sue convinzioni». Giovani liberi, tendenzialmente anticonformisti, un poco anarchici, dinamici, attivi, con qualche entusiasmo per lo sport diventano così per la Corte i soggetti ideali per un presunto dissenso, ora per allora, verso terapie di sostegno vitale, filtrato attraverso la volontà del tutore.
Questo abnorme indirizzo giurisprudenziale, che pare costruito su misura per porre fine allo stato dell’Englaro (per il nostro ordinamento viva, ma in quella zona grigia che la pone fuori dal mondo) è contrario ai criteri più elementari di validità pensati per le cosiddette dichiarazioni anticipate di trattamento, dove la forma scritta è l’unica garanzia per una più riflessiva formulazione della volontà, come avviene per il testamento mortis causa. D’altronde, anche le disposizioni cosiddette atipiche (art. 587, co. 2, c.c.), quali ad esempio quelle concernenti il riconoscimento del figlio naturale, scelta del tutore, disposizioni a favore dell’anima, richiedono la forma scritta. Per non menzionare, poi, la legge sulla privacy che subordina il trattamento dei dati personali al consenso espresso dell’interessato, manifestato liberamente, in maniera specifica per iscritto.
Si può allora osservare come emerga dalla sentenza della Corte una minore tutela al bene vita di quella che l’ordinamento in genere riconosce ad altri interessi riferiti a valori patrimoniali ed esistenziali della persona.
Ma, forse non tutti sanno che i criteri di accertamento della volontà imposti dalla Cassazione nel caso Englaro non sono conformi, anzi contrari, alla coeva giurisprudenza della stessa Suprema Corte. Emblematiche due sentenze (4211/2007 e 23676/2008) nell’ambito del diritto di non curarsi di pazienti, nella fattispecie testimoni di Geova. Sentenze che riaffermano l’obbligo del medico di salvare la vita, anche contro la volontà del soggetto e le sue credenze religiose che impongono il divieto a essere trasfusi. In queste decisioni si legge che qualora il paziente si trovi in stato di incoscienza, la manifestazione del 'non consenso' a un determinato trattamento sanitario, ancorché salvifico, dovrà ritenersi vincolante per i medici soltanto se contenuta in «una dichiarazione articolata, puntuale ed espressa, dalla quale inequivocabilmente emerga detta volontà». Una prova che non si realizza sebbene il paziente abbia con sé un cartellino recante la scritta «niente sangue».
Si presuppone, dunque, in queste decisioni che nel mediare tra le istanze del solidarismo e del consensualismo in materia di trattamenti sanitari debba prevalere la direttiva in dubio pro vita contro quella fatta propria nel caso Englaro in dubio pro morte.
Dunque, i giudici che hanno affrontato i problemi di vita o di morte tracciano princìpi e orientamenti difformi, lontani dal poter realizzare una qualche certezza del diritto. E non vedo come attenti giuristi, forse solo perché sospinti dalle proprie ideologie, sostengano che le Corti abbiano avuto il merito di tracciare una linea di legal polity, di modo che il processo normo-creativo possa usufruirne. Forse non sono state lette con sufficiente attenzione le diverse decisioni riguardanti le scelte di fine vita.
Ma che un indirizzo giurisprudenziale uniforme non si abbia avuto nel nostro Paese non deve stupire. Gli addetti ai lavori, coloro che vivono la prassi quotidiana delle Corti, sanno bene che è frequente da parte dei giudici l’uso dell’incerta e curva corda della loro ragione, spesso esercitata con criteri selettivi e discriminanti in base alle proprie ideologie politiche, sociali e religiose. Allora, pare necessario e urgente non trascurare l’arte legislativa, in grado di attuare un’opera di mediazione che tenga conto di una società caratterizzata da pluralismo etico.
* vicepresidente Comitato nazionale di bioetica
Il vice presidente del Comitato nazionale di bioetica, Lorenzo D’Avack, formula un giudizio severo sul castello di teoremi giuridici che sembra «costruito su misura per porre fine allo stato dell’Englaro»
Un giurista per la bioetica
Ordinario di Filosofia del Diritto, Università degli Studi «Roma Tre», Lorenzo D’Avack è membro del Comitato nazionale di bioetica attualmente in carica, del quale è vice presidente.