Dietro ogni uomo c’è una donna intelligente
Se ne è parlato tanto quando pareva che Mirna volesse morire, e poco quando ha cambiato idea. Potete leggere qui quello che si scriveva quando sembrava che la donna rifiutasse l’intervento che l’avrebbe salvata, e invece qua il cambiamento di idea, apparentemente inaspettato.
Già vedevamo stormi di uccellacci neri volteggiare intorno a questa faccenda. Ma un giudice tutelare (una donna, per la precisione) che evidentemente non si è limitato a “rispettare” la volontà della malata, ma non ha voluto lasciare niente di intentato, ha parlato efficacemente con Mirna, e dopo il colloquio la donna ha cambiato idea.
Non conosco i dettagli della faccenda (problemi in famiglia? Situazione assistenziale difficile?), ma non mi pare questo il punto, adesso. Questa storia piuttosto dovrebbe far riflettere chi in queste ore smania perché la legge sulle DAT (dichiarazioni anticipate di trattamento, che tutti continuano a chiamare “testamento biologico”) obblighi il medico a fare quel che la persona ha scritto.
Qualche domanda: cosa sarebbe successo se Mirna avesse scritto nelle DAT di non volere la tracheotomia? Siamo sicuri che qualcuno avrebbe provato con insistenza a farle cambiare idea?
E cosa avrebbe fatto Mirna se tutti intorno avessero deciso di "rispettarla" senza cercare di dissuaderla, magari tentando di capire se c'era qualcosa da fare per migliorare la sua situazione?
Insomma : se una persona dice di non voler curarsi più, e di voler morire, e se tutti intorno dicessero "OK, ti rispettiamo", come potrebbe questa persona cambiare idea?
O forse qualcuno comincia a pensare che una volta che una persona ha deciso di non curarsi più e di morire, non sia poi così importante, che cambi idea?
Avvenire 19.11.2009
Mirna spiazza tutti e cambia idea: «Voglio vivere»
Angelo Sconosciuto
Contrordine, anzi controdecisione, sempre in ossequio al principio della massima libertà. Sembra che il contatto con medici e altre persone e la disponibilità di un comunicatore a scansione oculare con il quale spiegarsi a dovere abbia fatto cambiare idea alla signora Mirna, 60 anni, originaria del Tarantino, malata di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla), che solo due giorni fa aveva chiesto, e ribadito dinanzi al perito nominato dalla Procura della Repubblica di Brindisi, di voler rinunciare all’intervento di tracheotomia che le avrebbe consentito di prolungare la sua esistenza. La donna, infatti, attraverso il battito delle palpebre, qualche giorno addietro aveva manifestato la volontà di voler morire, rifiutandosi di sottoporsi alla tracheotomia. Ieri, invece, Sara Foderaro, il giudice tutelare incaricato dal Tribunale di Brindisi di nominare l’amministratore di sostegno che avrebbe dovuto apporre la firma in calce al foglio di rinuncia all’operazione, è andata a trovare la donna nella stanza di rianimazione dell’ospedale Perrino di Brindisi e ne sarebbe uscita nel primo pomeriggio con la notizia che la donna avrebbe cambiato idea. Mirna, cioè, avrebbe deciso di sottoporsi all’intervento di tracheotomia che secondo i medici «le eviterà di contrarre le infezioni derivanti dalla ventilazione artificiale cui è attualmente sottoposta». Il drammatico caso era esploso alla fine della settimana scorsa, quando la donna, sposata, madre di due figli e da quindici anni in lotta contro il morbo di Lou Gehirg, dal letto di una casa di cura privata viene ricoverata nel reparto di Rianimazione nell’ospedale Perrino di Brindisi, intubata e collegata a una macchina per respirare. Si tratta, dicono i medici, di una condizione transitoria che avrebbe potuto durare al massimo un paio di settimane, entro le quali avrebbe dovuto sottoporsi a una tracheotomia. Sembra che, con il battito di palpebre, la donna abbia provato a dire che non intendeva sottoporsi all’intervento, innescando un conflitto di doveri tra i medici che palesavano l’inevitabilità di una tracheotomia e la famiglia che intendeva difendere le volontà della donna. Il caso è finito in Procura, visto che – si diceva nelle scorse ore – «lei muove gli occhi, le palpebre e la testa. Interagisce e sembra lucida. Ma la sua volontà potrebbe essere viziata dalla situazione contingente». Sul tavolo del sostituto procuratore Giuseppe De Nozza arriva la notizia di quanto sta accadendo, con i medici che non si assumono la responsabilità di staccare le macchine e dimetterla sapendo a cosa sarebbe andata incontro. Il magistrato ha innanzitutto chiesto una consulenza psichiatrica. «La paziente è in grado di intendere e di volere», ha stabilito la perizia e in un incontro con i giornalisti, lunedì mattina, il procuratore di Brindisi, Marco Di Napoli, con non poca commozione ha fatto vedere un foglio con su scritto «Voglio morire» e ha pronunciato una frase soltanto: «È una scelta dolorosissima». Da quella data dunque si diceva che il giudice tutelare avrebbe dovuto procedere alla nomina di un amministratore di sostegno, che avrebbe dovuto farsi interprete della volontà della donna che in quei frangenti sembra avesse solo chiesto di restare attaccata attraverso la cannula al ventilatore automatico, e tornare al più presto a casa. Insomma, il compito dell’amministratore di sostegno avrebbe dovuto essere solo quello di farsi interprete dei desideri della signora Mirna. «Stando alle normative vigenti – si spiegava in conferenza stampa –, non possono essere in alcun modo imposti trattamenti sanitari contro la sua volontà, tracheotomia compresa». Ieri pomeriggio l’inversione di rotta. A sorpresa. Ma che spiega tante cose.
16.11.2009 – Aduc
Mirna, la donna di San Giorgio Jonico, di 60 anni, ricoverata in gravissime condizioni nel reparto di rianimazione dell'ospedale 'Perrino' di Brindisi, affetta da sclerosi laterale amiotrofica (Sla), ha manifestato chiaramente la volontà di morire. Lo ha reso noto stamani il procuratore capo della Repubblica Marco Dinapoli. Proprio la Procura, attraverso il pm di turno Giuseppe De Nozza, aveva disposto una perizia medico-legale ed una perizia psichiatrica sulla donna per stabilire se è in grado di intendere e di volere. Ed in effetti, dagli accertamenti medici è emerso che Mirna vuole morire. Lo ha scritto con il suo linguaggio, sbattendo le palpebre allo scorrere delle lettere dell'alfabeto e componendo le due parole 'voglio morire'. Adesso la Procura ha chiesto al giudice tutelare la nomina di un amministratore di sostegno per le decisioni del caso ma questi, una volta nominato, non potrà non tenere presente la volontà della donna. E intanto il tempo trascorre e le condizioni di salute della donna si aggravano: attualmente è intubata ed entro 10 giorni dovrebbe essere eseguito un intervento di tracheotomia che, però, richiede il consenso della paziente. Mirna ha trascorso le ultime settimane nel letto di una casa di cura di Mesagne, nel brindisino, e da alcuni giorni è stata trasferita nell'ospedale 'Perrino' di Brindisi, dove i medici le hanno suggerito di sottoporsi in tempi brevi a un intervento di tracheotomia. Sia i suoi familiari sia lei stessa però rifiutano e chiedono che questa loro decisione sia rispettata, fino alle estreme conseguenze.
Momenti difficili per la nostra politica. Riassumendo:
1. Berlusconi ha uno straordinario consenso del popolo italiano e un’altrettanta straordinaria ostilità del sistema politico nel suo insieme, e cioè di quelle minoranze numericamente infime e per niente rappresentative del popolo italiano, ma comunque potentissime che pesano nella vita del nostro paese – i beneducati le chiamano “elite”, i più ingenui i “salotti buoni”, quelli un po’ meno ingenui i “poteri forti”, gli sfrontati “i massoni”, i realisti “le banche e i grandi gruppi editoriali”, e comunque ci siamo capiti.
2. Non riescono a far fuori Berlusconi politicamente, e quindi ci provano con la magistratura – e questo l’hanno capito anche i bambini
3. Alcuni sedicenti alleati, o alte cariche istituzionali che si definiscono alleati di Berlusconi, o almeno che dovrebbero esserlo, o che per lo meno dovrebbero provare a far finta di esserlo, stanno cercando di farlo fuori, affiancando l’opposizione. L’obiettivo? L’eredità – politica – di Berlusconi.
4. Gianfranco Fini – tanto per non far nomi – oggi in un’intervista a Lucia Annunziata ha dichiarato che non c’è nessun complotto nei confronti del premier – premio Pinocchio a Gianfranco Fini – e che comunque lui è contrario alle elezioni anticipate – e ci credo: e come ci torna, poi, a fare il presidente della Camera?
E per dimostrare che lui è veramente al di fuori di ogni sospetto, ha indicato un percorso per risolvere il problema della giustizia in riferimento all’immunità delle alte cariche dello stato: una legge per rendere più brevi i processi, e in parallelo, un “Lodo Alfano costituzionale”.
Vedremo cosa succederà. Nel frattempo, così, per curiosità, si può andare a vedere la composizione dell’ufficio di presidenza del PdL – uno degli organi di partito più importanti – e contare i “finiani”. Su 37 componenti, mi pare se ne possano contare sei. Ma di che stiamo parlando?
Se veramente avessero voluto eliminare il crocifisso da tutti gli edifici pubblici, avrebbero dovuto essere minimamente intelligenti, i giudici della sedicente Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, e non avrebbero mai dovuto formulare quella sentenza. Il crocifisso lo stavano togliendo piano piano da tutte le parti, senza polemiche, silenziosamente. Nell’indifferenza, o al massimo, ad essere buoni, nella inconsapevolezza dei più.
Con la sentenza, invece, hanno scatenato una specie di rivolta popolare, obbligando anche i più tiepidi a schierarsi per lasciarlo dov’è. E adesso, dopo la sentenza, tutti quelli che vanno in qualsiasi edificio pubblico – scuola, comune, tribunale, etc. – controllano se il crocifisso c’è, e dove non lo trovano ce lo rimettono.
Il giorno dopo la sentenza, per esempio, io ero in treno, e con il giornale aperto ho cominciato a parlare ad alta voce, protestando in modo abbastanza colorito sulla faccenda, con tutto il vagone dalla mia parte e nessuno che osasse dire il contrario. Annuivano tutti, aggiungendo epiteti non proprio gentili e tantomeno caritatevoli nei confronti dei giudici suddetti. Uno seduto dietro di me ha chiarito di essere totalmente d’accordo con me, pur non entrando in chiesa da tantissimo tempo.
Il popolo italiano si è sentito offeso, insomma, e si è compattato, perché l’impressione, netta, è stata che un microscopico gruppo di inutili giudici stranieri - l’unico italiano presente ha un cognome tanto noto quanto impronunciabile, straniero pure lui, insomma - che “lavora” per quella cosa inutile che è l’Europa – smettiamola con la retorica, per il 95% degli italiani il più grande vantaggio dell’Unione europea è che non bisogna più usare i travel check - viene ad impicciarsi di quello che facciamo a casa nostra, e vuole imporci quel che pensa. Ed è pure abbastanza inutile, anche se è corretto, spiegare che la sedicente Corte dei Diritti Umani non c’entra un bel niente col parlamento europeo. Per il cittadino quadratico medio basta la parola: Europa, roba lontana e, nella migliore delle ipotesi, inutile. Spesso, purtroppo, dannosa.
Non hanno fatto un gran servizio alla causa europea, insomma, i giudici della sedicente corte dei diritti umani. E neanche hanno risollevato la categoria dei giudici, che ultimamente non va per la maggiore.
E invece a noi che in quel Crocifisso crediamo, la sentenza che ce lo vuole togliere ha fatto un gran favore. Ci ha ricordato che averLo davanti non è scontato. E che i segni della Sua presenza non debbono ridursi ad arredi decorativi, oramai familiari. Di un arredo se ne può fare a meno. Del Suo segno, no.
Avvenire 7.11.2009
Il Muro non esiste più» E Berlino diventò una sola
DAL NOSTRO INVIATO A BERLINO LUIGI GENINAZZI
Se non fosse per i pannelli che ricordano uno dei primi tragici tentativi di fuga dalla Germania comunista, farei fatica a ritrovare l’ex passaggio di confine ad Invalidenstrasse, a poche centinaia di metri dal Reichstag che oggi ospita il parlamento tedesco sotto una grande cupola di cristallo. Fu qui che in mezzo ad una folla festante varcò il Muro, sulle spalle del padre. Rivedo ancora gli occhioni azzurri di quel bimbo. Oltrepassato il posto di guardia alzò lo sguardo verso il cielo come se all’Ovest avesse un colore diverso da quello plumbeo e grigio dell’Est. Una scena degna di un film di Fassbinder, un’immagine che più di ogni altra mi si è fissata nella memoria il giorno che crollò la Bastiglia rossa e ne uscirono i prigionieri di un regime dispotico e assurdo. Era il 1989, l’anno in cui il vento della libertà soffiava impetuoso. Ma nessuno s’immaginava che avrebbe buttato giù il muro della vergogna. Ore venti di giovedì 9 novembre. Squilla il telefono, dall’altra parte del filo Giuliano Ragno, il nostro compianto vice-direttore che all’epoca era responsabile degli esteri. «Hanno appena annunciato che la Ddr apre le frontiere – grida con voce concitata –. È come se fosse caduto il Muro!». I dispacci d’agenzia non erano molto chiari, parlavano di nuove disposizioni in materia di viaggi all’estero e di liberalizzazione dei visti d’uscita per i cittadini della Germania comunista. Ma Giuliano era uno che la notizia l’afferrava al volo: «Il Muro non c’è più, corri subito a Berlino!». Il mattino dopo ero lì, taccuino in mano e cuore gonfio d’emozione. I mattoni e le lastre di cemento non erano spariti, così come il filo spinato, i cavalli di Frisia e le mine anti-uomo che da ventotto anni costituivano l’oscena barriera di separazione tra le due Germanie. Ma nel volgere di una notte erano diventati lugubri residui del passato, una sorta d’illusione ottica, inutile fondale per un teatro dell’orrore che non si recita più. Va in scena un altro spettacolo, incredibile e pazzesco, «Wahnsinn», come dicono i tedeschi. Mi ritrovo circondato da una marea umana impressionante che si riversa oltre il Muro e inonda Berlino Ovest. Già nelle settimane precedenti 200mila tedeschi orientali erano fuggiti in Occidente attraverso l’Ungheria, un Paese formalmente socialista che aveva deciso d’aprire le sue frontiere con l’Austria. Contro il rigido comunismo prussiano si poteva solo «votare coi piedi», cioè scappare. Il 18 ottobre Erich Honecker, già capomastro del Muro e quindi dittatore incontrastato della Ddr, aveva dato le dimissioni. Gli era succeduto lo sfortunato Egon Krenz che affrontava col suo sorriso equino l’onda montante della protesta, mentre la grande fuga non accennava a diminuire. E nel tentativo di frenare il malcontento popolare il regime si decide a varare disposizioni meno restrittive per i viaggi all’estero. La sera del 9 novembre, dopo che si è diffusa la notizia della nuove modalità d’espatrio «senza motivi particolari», molti cittadini della Ddr si recano ai pochi punti di valico sotto gli sguardi increduli e stupefatti dei Vopos, le terribili guardie di frontiera educate allo Schiessbefehl, l’ordine di sparare a vista su chiunque tenti di saltare il Muro. Adesso però non sanno come comportarsi, chiedono istruzioni ma ricevono solo ordini confusi e contraddittori. Cresce il nervosismo e così c’è chi decide d’alzare la sbarra permettendo alla gente di passare. Gli storici stanno ancora litigando su quale fu il primo posto di controllo dove venne aperta la frontiera più blindata d’Europa. Alla Bornholmer Strasse, poco prima di mezzanotte, si è sempre pensato (e sarà qui infatti che avranno luogo le celebrazioni del ventennale). No, il Muro cadde già alle otto e mezzo, alla Waltersdorfer Chaussée, all’estrema periferia sudorientale della città, sostengono altri. Il dibattito conferma che l’evento più importante della storia del dopoguerra avvenne in modo del tutto imprevisto e casuale. Dalle finestre della sua residenza in Unter den Linden, il viale centrale di Berlino est, l’ambasciatore sovietico assiste, impotente e frastornato, al passaggio di migliaia di persone che si dirigono verso la Porta di Brandeburgo. Negli stessi minuti a Bonn, nell’ufficio della Cancelleria, il consigliere Eduard Ackermann chiama al telefono Helmut Kohl che si trova a Varsavia per una visita di Stato. «Continuava a chiedermi se fosse proprio vero quello che gli riferivo», ricorda Ackermann. C’è davvero di che stropicciarsi gli occhi davanti a quello che sta accadendo. Venerdì 10 novembre Berlino si risveglia sotto un tiepido sole autunnale scoprendosi pacificamente invasa da una folla ubriaca di felicità. Famiglie intere, giovani a coppie o in gruppo, scolaresche al completo, in autobus, in macchina o in bicicletta, qualcuno perfino a piedi, tutti vogliono assaggiare il frutto finora proibito della libertà. C’è chi piange per la commozione e chi alza le dita in segno di vittoria mentre oltrepassa il Muro, finalmente visto da vicino e dalla parte migliore. Ai valichi vengono salutati con applausi scroscianti dai berlinesi occidentali che in segno di benvenuto offrono fiori alle donne e boccali di birra schiumante agli uomini. La fredda e opulenta Berlino sprizza di gioia sincera mentre abbraccia calorosamente i cugini poveri dell’Est. Impossibile muoversi in città bloccata da ingorghi paurosi, con le rumorose e puzzolenti Trabant (l’auto col motore a due tempi simbolo della Ddr) che s’infilano tra Mercedes e Bmw.«È il caos più meraviglioso che avremmo potuto sognare – titola la Bild Zeitung –. Ringraziamo Dio». Sulla Ku-damm, la via elegante del centro, ho visto una Trabant tamponare una grossa Mercedes. Ne scende un signore distinto e cosa fa? Abbraccia il malcapitato che gli è andato addosso: «Non è niente», dice ridendo. Si sentono un po’ come dei marziani i cittadini dell’Est, approdati su un altro pianeta. «Ma qui è tutto colorato!» mi dice un ragazzo con gli occhi spiritati. Molti si fermano col naso schiacciato contro le vetrine, tutti fanno la fila davanti alle banche dove ricevono cento marchi a testa, la somma di benvenuto che la Bundesrepublik regala ai tedeschi della Ddr. C’è chi si precipita alla KaDeWe, mitico centro commerciale d’inizio Novecento, per comprarsi l’agognato paio di jeans. E c’è chi entra alla Gedachtniskirche, la chiesa ricostruita sulle rovine della seconda guerra mondiale, per ammirare le vetrate e dire una preghiera. Ma il culmine della festa è alla Porta di Brandeburgo, lungo il Muro preso d’assalto da migliaia di persone. Con picconi, scalpelli, persino a mani nude, cercano di portarsi via un souvenir di quello che ormai è un innocuo monumento alla guerra fredda. Balli, canti, brindisi e abbracci. È ormai notte fonda, vorrei andare a riposare ma ci rinuncio: l’hotel è lontano, il traffico è in tilt, le stazioni del metrò sono più affollate di uno stadio e di taxi neanche l’ombra. La festa durerà fino a domenica, un magico week end che non potrò mai dimenticare. Per tre giorni e tre notti Berlino, «callo sul piede americano da pestare a piacere», secondo la sprezzante definizione di Krusciov, è diventata l’ombelico di un mondo nuovo. Dopo le prime titubanze Kohl marcia deciso verso la riunificazione delle due Germanie. La Storia si è messa a correre e nessuno riuscirà più a fermarla.
Sui presunti gameti artificiali, ho scritto e commentato su Avvenire
Nell’ambaradan politico di questi giorni, Tremonti ha cercato il colpaccio: all’apice del suo potere ha giocato il tutto per tutto e, con lo sponsor della Lega, ha cercato di farsi incoronare vicepremier, in attesa di ereditare lo scettro berlusconiano.
Ma ha fatto male i conti, ha voluto strafare e ha perso: formalmente coordina le politiche economiche del PdL. Nei fatti, adesso deve rendere conto di quel che fa al partito. Ce lo spiega bene Stefano Folli, oggi.
Delle abitudini sessuali dell’ex presidente della regione Lazio, il Pd Piero Marrazzo, non me ne importa niente. Tra l’altro, almeno a giudicare dalle foto, i transessuali con cui andava mi sembrano incredibilmente brutti.
Potremmo riflettere sulla superiorità della sinistra – che va con i trans – rispetto alla destra – che invece va con le escort – insieme a Benigni, che ricordava una vecchia battuta: “Quando voi eravate ancora sugli alberi, noi eravamo già froci”.
Molto più amaramente, sotto gli occhi di tutti i due pesi e due misure fra i casi Marrazzo e Boffo. Il primo è stato colto in flagrante in una situazione personale tanto imbarazzante quanto chiara, e soprattutto ha ammesso di aver pagato dei carabinieri per comprarne il silenzio, mentre ancora non è chiara la faccenda della droga che appare nel video incriminato. Ma c’è una generale generosità e comprensione nei suoi confronti: il caso Marrazzo non è stato la prima notizia per giorni e giorni su tutti i media, e comunque c’è gente che si spertica a difenderlo, a comprenderlo, etc.
Boffo, direttore di Avvenire, - non un rappresentante di un’istituzione pubblica - è stato sbattuto per giorni su tutti i media per una lettera anonima che lo indicava come omosessuale (cliccare qua per ricordare la faccenda) e che nel suo caso è diventato un’accusa feroce, anche e soprattutto per quel “fuoco amico”che lo ha costretto alle dimissioni. Meditate, gente, meditate.