Sono veramente stufa di sentire tutte queste calunnie e fesserie sull’università.
In questi giorni di proteste si sono sentite cose inenarrabili, soprattutto nelle trasmissioni televisive: giornalisti e politici di destra e di sinistra che straparlano dimostrando di non sapere neanche di cosa stanno berciando.
Per esempio quando puntano il dito accusatore protestando perchè ci sono 5000 corsi di laurea: mai sentito parlare di tre più due? Dove eravate quando la più grande disgrazia, il tre più due, appunto, si è abbattuta sull’università? Tutti zitti, a bersi la favola dei crediti, della riforma che ci portava in Europa, mentre diventavamo matti con le tabelle della 509 (e poi della 270), tutti impegnati con caratterizzanti, affini e tirocinio, e chi non sa di queste cose, di cosa è significato il tre più due, faccia il favore di tacere e di occuparsi di altro - ippica, per esempio - e non rompa le scatole.
Oppure la favola delle 300 e passa “facoltà” con qualche iscritto – pure questa ci è toccato sentire - senza sapere che non si possono istituire facoltà solo con qualche iscritto, e quindi forse volevano dire corsi di laurea, che è un’altra cosa, e poi questi corsi andrebbero pure verificati perché, ammesso che esistano, probabilmente sono quelli che si stanno chiudendo per via dei requisiti minimi, o essenziali.
E poi tutti a lamentarsi dei parenti in università, cioè del fatto che in certe facoltà si entra per grado di parentela: forse sarebbe il caso una buona volta di osservare che c’è una differenza abissale fra le facoltà dove è importante la libera professione (ad esempio Medicina e Giurisprudenza) e quelle dove invece questa non c’è (Filosofia e Scienze, per esempio). Forse bisognerebbe cominciare a pensare regole differenti, quando sono in gioco interessi diversi: il medico che è anche prof. universitario chiede una parcella differente da quello che docente universitario non è, e magari ha anche uno studio professionale che vuole tramandare ai posteri, possibilmente parenti stretti. E d’altra parte è ovvio che chiamare ad insegnare in università avvocati o medici professionalmente affermati, arricchisce l’università stessa. Evidentemente bisogna pensare regole particolari, diverse, per facoltà di questo tipo.
O il problema delle sedi universitarie proliferate, anche in piccoli paesi: nessuno che spieghi il meccanismo con cui questo è avvenuto. Se un comune mette a disposizione della sede universitaria più vicina una somma consistente per pagare qualcuno che insegni un qualche corso nel comune stesso, e una struttura per permettere l’insegnamento, mi si trovi, per favore, un rettore che dica “no grazie”: i docenti lo prenderebbero per matto, soprattutto quelli potenzialmente interessati a ricoprire i nuovi corsi. Di fronte a una cronica mancanza di fondi, mi si trovi per favore un preside disposto a rinunciare ad aprire un corso di laurea triennale ben pagato, solo perché è in un piccolo paese.
Certo che quella non è l’università, certo che per esempio un paese come Acquacanina (dove andavo in vacanza da piccola) suonerebbe quantomeno improbabile come prestigiosa sede accademica, ma diciamolo francamente: pecunia non olet, e se per pagare qualche giovane si ha solo quello, passi pure l’università di Acquacanina. Sfido chiunque a dire il contrario. (per non parlare del vantaggio per il politico e l’economia locali)
Quello che si sta leggendo in questi giorni sull’università è indegno.
Sicuramente è un sistema con tante storture e difetti, ma non è quel covo di fannulloni e delinquenti che i media stanno descrivendo.
Ed è curioso che, pur essendo culturalmente un ambiente spesso vicino alla sinistra, non gode di buona stampa neanche nei giornali di quell’area culturale. Nessuno difende l’università.
La verità è che con tutti i suoi difetti – che non nego, sarei cieca a non vederli, e se questa è l’occasione di cambiare, sono la prima a dire “io ci sto” – l’università è forse uno dei pochi, se non l’unico, spazio libero del nostro paese. Una specie di zona franca, ordinatamente anarchica.
Non ci sono sindacati, perchè con i famigerati “baroni” (e parlare di baroni universitari nel 2008 suona un po’ come parlar di panda: non ci sono più i baroni di una volta, signora mia) sostanzialmente ha funzionato la cooptazione, e questo ha salvato l’università rispetto alla scuola, per esempio, dove l'alternativa ai concorsi carrozzone sono state le SISS (e ho detto tutto: per informazioni e chiarimenti, rivolgersi a professori delle superiori, o anche a studenti attempati).
In università c’è ancora, nonostante tutto, libertà di insegnamento e di ricerca, le eccellenze non mancano e non sono rare. Non è vero che il livello di preparazione è così basso: i nostri studenti, quando vanno all’estero per dottorati e borse, non sono certo disadattati, e la stragrande maggioranza riceve buone offerte per restarci, all’estero, il che qualcosa vorrà pur dire.
L’università, nonostante tutto, è ancora il posto dove continui l’esperimento in laboratorio alle tre di notte anche se non ti aumenta lo stipendio, ma lo fai perché in quel modo magari riesci a misurare qualcosa di importante, capire come funziona un sistema, imparare, scriverci su e andarlo a raccontare ai congressi. E’ il posto in cui fare ricerca è gioco di squadra, dove puoi passare il tempo a studiare, ragionare, dedurre e scoprire, dove tiri su ragazzi, da studenti te li vedi diventare ricercatori, e quindi fai di tutto per tenerli con te. Li mandi a studiare in giro per il mondo, come qualcuno ha fatto prima con te, perché solo in questo modo si cresce veramente, si diventa indipendenti, critici, si sviluppa un proprio progetto di studi, e la ricerca va avanti.
L’università, nonostante tutto, dà ancora la possibilità di incontrare gente da cui imparare, la possibilità di incontrare il mondo.
Per questo sono preoccupata dei tagli indiscriminati all’università: se tagli devono essere, che abbiano un criterio. Che si tolgano di mezzo i rami secchi, e si risparmino quelli freschi, si permetta loro di crescere.
E smettiamola di parlare a vanvera: smettiamola di sparare sull’università. E’ già sufficientemente messa male per conto suo.
Riformare l’università non sarà facile. Ci vorrà tanto tempo, come dice qua Giancarlo Cesana. Però da qualche parte dobbiamo pure cominciare, almeno noi, che in università ci viviamo e alla quale, comunque, teniamo veramente.